PIET MONDRIAN E TERMINATOR VAN DOESBURG
Olanda... che parola melodiosa dal suono soave.
Penso all’Olanda e vedo ridenti paesaggi fioriti, campi accuratamente coltivati,
bianchi mulini a vento e bionde olandesine che indossano zoccoli di legno
d’estate e pattini d’argento d’inverno.
Questa nazione relativamente poco belligerante, evoca in noi idee di sviluppo
sociale, ordine civico, integrazione razziale, birra non pastorizzata e
marijuana legalizzata. Un’atmosfera di operosità serena e appagata.
D’altronde una nazione che esporta bulbi di tulipani e importa diamanti
ha tutti i diritti di sentirsi soddisfatta.
Anche
l’arte olandese riflette questo clima di ricchezza e cultura; gli artisti
hanno ritratto coppie borghesi, floride veneri rosee, linde ricamatrici,
laghetti lucidati a specchio. In un ambiente così idilliaco ci si aspetta
di trovare persone serie, intellettuali rigorosi, artisti precisi e coscienziosi...
poi si incontra Theo van Doesburg e tutto assume una piega contro-costruttiva.
Ma cominciamo dall’inizio perché la storia è davvero lunga.
Preciso che van Doesburg non me lo sono andata a cercare: mi stavo tranquillamente
occupando di Mondrian quando Theo si è messo di mezzo e ha cominciato a
fare qualsiasi cosa per attirare l’attenzione.
Conoscendo il carattere severo di Mondrian pensavo si sarebbe incavolato
al cospetto di questo giovane esagitato, invece si è limitato ad aspettare
in silenzio che l’altro si quietasse. Devo anche dire che ho notato una
specie di vaga ombra di sorriso.
Sono allibita: Mondrian non sorride mai! Non ha mai sorriso una volta in
vita sua neanche per sbaglio. Tra l’altro credevo che fra lui e van Doesburg
i rapporti fossero definitivamente crollati dopo la famosa questione delle
diagonali... come mai questa indulgenza verso un pericoloso obliquatore
di perpendicolari?
Se c’è una cosa sulla quale Piet non transige è l’ortogonalità. Per lui
non è una semplice scelta stilistica, meno che mai un motivo estetico o
decorativo. I suoi quadretti colorati non sono nati da un’ispirazione momentanea,
al contrario sono frutto di una ricerca lunga e difficile.
Mondrian ha cominciato come artista olandese d’ordinanza, dipingendo mucche,
paesaggi, fiori e compaesane in cuffia bianca. Ovviamente non poteva esimersi
dal ritrarre mulini a vento, cosa che ha fatto con grande entusiasmo e colori
antinebbia a profusione, come si può vedere in una tela del 1908 che sembra
realizzata da un Van Gogh fatto di acido.
Questi lavori fauve hanno successo, e a 37 anni Mondrian diventa famoso,
vende moltissimo e si fidanza. Sembra l’inizio di una promettente carriera
ma improvvisamente i suoi quadri cambiano, forse a causa della morte della
madre. Comincia a dipingere enormi opere scure che nessuno vuole, se anche
gli acquirenti le avessero apprezzate, difficilmente avrebbero avuto a disposizione
pareti di dieci metri su cui appenderle.
La perdita del favore del pubblico non provoca in lui ripensamenti artistici,
e invece di tornare a dipingere mulini a vento rossi e gialli a quarant’
anni parte per Parigi.
Questa è la cosa che più mi ha colpito di Mondrian come persona. Non era
ricco, aveva lavorato tanto per diventare un artista professionista, e da
poco aveva cominciato a ottenere il successo, non era un ragazzo giovane
e scapestrato, eppure ha lasciato tutto. Sarebbe stato facile per lui continuare
una strada che gli aveva già portato riconoscimenti e denaro, invece senza
fare tante scene, decide di seguire la sua anima anziché assecondare il
proprio autocompiacimento.
Questa scelta non è così naturale per gli artisti, il richiamo del consenso
di pubblico è piuttosto difficile da ignorare per chi lo sperimenta. Provo
inevitabilmente stima per quelli che hanno il coraggio di seguire le proprie
idee nonostante l’opinione dei compratori come hanno fatto anche Duchamp
e Man Ray.
Quest’ ultimo è uno dei miei preferiti per come ha descritto nell’autobiografia
questa fase del suo percorso artistico. Uno dei ritratti d’artista più lievi
e sdrammatizzanti che io abbia letto. Nel libro Man Ray racconta la sua
precoce vocazione per la pittura, i mestieri che conservava giusto il tempo
necessario per pagarsi gli studi e il periodo bohémien-agreste. All’inizio
dipinge molto, soprattutto paesaggi che lui stesso definisce di tendenza
“romantico-espressionista-cubista”. Un giorno conosce un collezionista che
compra molti di questi quadri: per il giovane e squattrinato Man Ray è la
salvezza e invita il suo mecenate nello studio per mostrargli i nuovi lavori,
opere con disegni di “forme pseudomeccaniche”.
Il collezionista ha un trauma. Non solo non acquista nulla ma gli consiglia
di tornare ai paesaggi.
Man Ray non prende in considerazione l’ipotesi neanche per un nanosecondo,
sa che non gli venderà più nulla, così cerca di chiudere in bellezza la
sua carriera di pittore tradizionale, offrendo al suo primo e unico acquirente
l’ultimo quadro che aveva dipinto in campagna a una cifra spropositata.
Naturalmente il tipo non ci pensa nemmeno e se ne va schifato, e Man Ray
si dedica senza rimpianti a rayogrammare forbici e fiammiferi.
Mentre Man Ray sperpera allegramente collezionisti come fossero bruscolini,
Mondrian si sistema a Parigi. Il suo studio che diventerà celeberrimo, si
trova in una via con un nome così poetico, elegante e avventuroso che neanche
a cercarlo col lume a petrolio... Rue du Départ.
Lo trovo perfetto, evoca partenza e morte, viaggi verso paradisi perduti
e lettere d’addio, è una via davvero dark-chic.
L’evoluzione dei quadri di Mondrian nel periodo della sua prima permanenza
a Parigi è nota a tutti. Gli alberi, i vasi di zenzero e le facciate delle
chiese, subiscono progressive metamorfosi e frammentazioni, si direbbe quasi
che esplodano. Ovviamente trattandosi di Mondrian è un’esplosione molto
ordinata, le cose non si disintegrano con caotica maleducazione ma si disgregano
in ragionevoli quadrati e rettangoli.
Nel 1914 Mondrian rientra in Olanda. Non si conosce il motivo di questo
rimpatrio, forse una malattia del padre; la guerra lo costringe a rimandare
il rientro a Parigi.
Questa forzata lontananza dall’ambiente stimolante della metropoli, favorisce
i progressi successivi di Mondrian che si addentra solo e temerario nel
suo universo di angoli retti. Comincia a coprire le tele di crocette e righette,
mantenendo un vago ricordo del mondo reale soltanto nel titolo, o meglio
nei titoli.
A questo proposito è emblematico un dipinto del 1915, una tela rettangolare
con fondo bianco-grigio e una bella nuvola di aste orizzontali e verticali.
Il titolo è Composizione n. 10, e fin qui siamo tutti d’accordo.
Poi il titolo riprende: aperta parentesi, Molo e mare, chiusa parentesi.
La cosa è ancora tollerabile, un residuo di naturalismo non si nega a nessuno...
il paesaggio è duro a morire.
Ma la nota ci avverte che alcuni documenti del tempo fanno riferimento a
questa nube di T anche con il titolo Cielo stellato (e vabbè... ) o Notte
di Natale.
Eh no! Notte di Natale mi pare eccessivo. Non so chi ha trovato questo titolo
repellente, ma non credo che a Mondrian sarebbe mai venuta in mente una
cosa così merrychristmasiana.
Comunque, le opere di questo periodo vengono dette del “più-meno”, che non
è un grande miglioramento verbale rispetto alle denominazioni da festività.
Ma come, per Picasso hanno messo a disposizione addirittura un cosmico e
profondo “periodo blu” e per Mondrian non trovano altro che una definizione
aritmetico-indecisa?
Ma Piet non è certo tipo da lasciarsi demoralizzare per questioni semantiche
e continua imperterrito a quadrettare il mondo. Gli anni passati a Parigi
devono avere in parte cambiato il suo carattere solitario, visto che compra
un abito da sera e comincia a fare vita di società.
Me lo immagino austero, elegante, il fisico asciutto da ballerino, lo sguardo
severo mentre frequenta i salotti di Amsterdam. Fa amicizie importanti,
utili e “perbene”. Conosce personaggi dell’alta società, critici e anche
uno storico dell’arte che consiglia i Köller-Müller (una ricca famiglia
di industriali) di fornirgli una rendita annuale in cambio dei suoi quadri
più importanti per la loro collezione.
In questo ambiente altolocato Mondrian si aggira tranquillo, senza sospettare
che proprio tra queste persone così solide si nasconde un losco tipastro,
un litigatore internazionale specializzato, un esagitato cronico verbalmente
incontrollabile.
E’ proprio lui: Theo van Doesburg.
In realtà ci sarebbero cascati tutti. Theo si presentava come una persona
frequentabile: pittore e poeta, molto colto, conosceva la filosofia e aveva
più energia di una dinamo.
I due artisti diventano subito amici, si influenzano a vicenda in modo proficuo
per entrambi. Van Doesburg comincia a dipingere seguendo lo stile e le idee
di Mondrian, che si avvale della cultura dell’amico più giovane per scrivere
in forma compiuta le sue idee sull’arte.
Forse questo è il periodo più bello per van Doesburg, ma come ben sappiamo
in Olanda la marea non è mai ferma.
Mondrian, nonostante gli immancabili alti e bassi, attraversa la vita come
ipnotizzato dalla sua profonda determinazione nel volere rendere visibile
la vera forma delle cose e ci appare in parte protetto dalla sua stessa
missione artistica filosofica. La volontà di trasmettere un pensiero-forma
che sostiene e dà senso profondo alla sua esistenza di artista, e la forza
incrollabile della sua esistenza come uomo, rendono quasi superflua l’interazione
con gli altri (e soprattutto le conferme che gli altri possono dare al valore
del suo lavoro) .
Van Doesburg appare più fragile e inquieto; artisti come Mondrian forse
si nasce, una simile determinazione non si può costruire, e van Doesburg
non la possiede. E’ costantemente alla ricerca di nuovi rapporti, intreccia
legami che quasi immancabilmente rompe, non riesce a dominare la propria
energia né a trasformarla in vera forza. Spesso si trova in crisi a causa
delle sue difficoltà nel portare avanti sodalizi artistici nati come progetti
interessanti e finiti inevitabilmente per un litigio.
Nel 1916 è ancora tutto da costruire, immagino van Doesburg entusiasta e
Mondrian più contenuto che fanno progetti e confrontano i loro pensieri.
Insieme conoscono altri artisti olandesi, li coinvolgono nella loro idea
di diffondere in Europa una nuova visione dell’arte. A questo scopo van
Doesburg fonda la rivista De Stijl, nome che sarà adottato anche per designare
il gruppo composto da lui stesso, Mondrian, Huszàr, van der Leck, Oud e
van t’Hoff.
Bisogna premettere che De Stijl più che un movimento artistico sembra una
fisarmonica. C’è un continuo via vai, un perenne defluire di componenti
sostituiti da nuovi membri che presto se ne vanno.
Van Doesburg forse non sarà un sommo pittore, magari non è stato un grande
designer di interni, probabilmente come scrittore era un po’ enfatico, può
darsi che come progettista di vetrate lasciasse a desiderare... però c’è
una cosa in cui è maestro, uno specialista assoluto e imbattibile: è un
genio nell’arte del litigio.
Grazie al suo caratterino al napalm gli artisti entrano nel gruppo, fanno
appena in tempo ad accomodarsi un attimo e a guardarsi intorno che Theo
dice esattamente la cosa sbagliata nel modo sbagliato alla persona sbagliata,
sicché l’artista in questione prende guanti e bombetta saluta e se ne va.
Nonostante ciò la rivista è molto bella sia dal punto di vista grafico sia
per i contenuti. Sulle sue pagine oltre ai testi teorici dei componenti
del gruppo, vengono pubblicati e commentati i lavori più interessanti degli
altri movimenti d’avanguardia europei; tra gli articoli più importanti “Pittura
delle avanguardie” di Gino Severini.
Una delle cose più interessanti da sottolineare è l’attenzione totale che
van Doesburg dedica a ogni singolo aspetto della rivista, fino al punto
di cambiare continuamente formato, copertina e impaginazione.
Van Doesburg era fatto così: entusiasta, incapace di dosare le energie,
metteva se stesso in ogni cosa senza risparmiarsi.
A questo proposito vorrei riportare un brano da una sua lettera. Solitamente
cerco di evitare le citazioni ma questa volta ne vale la pena.
Van Doesburg ha 34 anni e continua a comportarsi come un adolescente ipervitaminizzato;
ha conosciuto Vilmos Huszàr, ha visto le sue vetrate e ne è rimasto folgorato.
Huszàr prepara il bozzetto per una vetrata (Testa di donna) che viene ripresa
e realizzata da Van Doesburg come ritratto della sua ragazza Helena Milius,
la quale diventerà una delle sue tre mogli (cioè dopo la prima e prima della
terza, non contemporaneamente alle altre!)
Van Doesburg rimirando il lavoro terminato scrive:
“Ho disegnato un ritratto di Helena in vetro colorato! Questo fa sì che
il Medioevo sembri completamente superato! Soltanto qualche ora fa stavo
ancora tremando, e adesso le lacrime scorrono sulle mie guance mentre guardo
lo studio. E’ la cosa più bella che io abbia mai fatto in vetro colorato.”
Non so chi ha ricevuto questa toccante missiva, né conosco la reazione
della sig.na Helena nel sentirsi paragonare a una serie di rettangoli verdi
e blu, ma se poi lo ha sposato doveva essere una ragazza con una forte predisposizione
neoplastica.
Personalmente trovo un po’ eccessivo l’entusiasmo di Theo, l’idea di superare
il Medioevo con una finestra di cm 39x26 nel suo caso mi sembra azzardata.
Se proprio dobbiamo scavalcare le epoche con le vetrate di Theo ci vuole
qualcosa di più imponente, come la Grande Scena Pastorale realizzata da
van Doesburg per la Scuola di Agricoltura di Drachten: due pannelli di 3
metri per 70 centimetri l’uno, ordinatamente riempiti di personaggi che
svolgono lavori agresti (almeno credo che la mia sia un’interpretazione
plausibile vista la committenza, ma potrebbero anche essere omini fatti
col Lego che pattinano sul ghiaccio).
Van Doesburg ha fatto circa settemila disegni preparatori, studiando attentamente
la composizione, la distribuzione di forme e colori, lo svilupparsi e intersecarsi
delle linee di forza per conferire all’opera un senso di equilibrio dinamico...
e durante i lavori di ristrutturazione i due pannelli sono stati rimontati
invertiti!
Van Doesburg non è nuovo a questi spostamenti arbitrari. Il suo quadro Contro-composizione
VIII, è un quadrato che compare sui libri appeso per un angolo, così da
risultare una losanga bianca con una T nera formata da linee ortogonali.
Però in una foto della sua casa possiamo vedere lo stesso quadro ruotato
di 90 gradi.
Ma povero Theo, gli girano tutto!
Va bene che le opere degli artisti vengono reinterpretate in modi molto
diversi nelle epoche successive, ma mi sembra esagerato ruotare un quadro
come una girandola.
Mentre van Doesburg sbaraglia il Medioevo a finestrate, Mondrian prosegue
imperterrito la sua ricerca e la sistematica eliminazione di mecenati. Non
fa in tempo a incontrare un paio di Köller-Müller danarosi e ben disposti
che cambia di nuovo stile. Basta crocette fluttuanti, colori pastello e
reminescenze paesaggistiche, non vuole dipingere cose gradevoli ma la sua
semplice la verità.
L’obiettivo di Mondrian è rappresentare l’armonia assoluta, il fondamento
della vita, l’universale che si cela sotto gli infiniti aspetti particolari
della realtà.
Secondo Mondrian la manifestazione di questo invisibile fondamento universale,
nella vita quotidiana è rappresentabile solo tramite l’invariante ortogonale.
Questa sua idea è davvero strana, vede la realtà dell’universo come un reticolo
ordinato, non monotono ma armonico. Nei suoi quadri, nei minuziosi studi
preparatori, negli spostamenti delle linee cercava di ricreare una visione
che aveva ben chiara, un ritmo che fosse contemporaneamente dinamico ed
equilibrato.
Anche io penso che l’universo abbia una struttura dinamica, ma se cerco
un’immagine che la rappresenti mi viene in mente una cosa che ho visto anni
fa: un serpente che nuota nell’acqua di un fiume. E’ un movimento liquido
in un fluido, una cosa senza capo né coda, senza principio né fine, uno
svolgersi continuo di spire nella corrente.
Ma chi può dire cosa è reale oltre l’apparenza? Magari Mondrian aveva ragione
a vedere tutto grigliato, però i suoi collezionisti non hanno apprezzato
le righe nere su fondo bianco e l’hanno depennato dalla lista dei sovvenzionati.
Ancora una volta Mondrian va dritto per la sua strada e a costo di ripetermi
voglio manifestargli di nuovo il mio rispetto.
Per la seconda volta trova chi riconosce la sua arte e lo aiuta a portare
avanti le ricerche, e di nuovo segue un percorso che lo allontana da una
situazione economica ideale. Non è cosa da tutti.
Voglio dire, prendiamo ad esempio un artista sconosciuto, uno di quelli
che non sono quotati sul mercato, che non vendono e i cui quadri non interessano
più di tanto... come me.
Non è proprio che Sotheby mi supplichi per battere all’asta i miei capolavori,
nessuno mi calcola così io posso continuare serenamente a dipingere quello
che mi pare. Ma se un giorno arriva un Köller-Müller e mi dice: compro tutto
per la mia prestigiosa collezione esposta nel palazzo di Timbuctù basta
che smetti col tentativo di eliminare dai tuoi quadri gli arzigogoli che
mi piacciono tanto... io avrei il coraggio di rifiutare solo perché Malevic
faceva quadrati bianchi su fondo bianco? Capisco che il ragionamento è un
po’ contorto e poco consequenziale, ma non sono mai stata molto portata
come filosofa logistica.
Per fortuna è altamente improbabile che si presenti un Köller (o un Müller)
a tentarmi, così posso continuare a imbrattare tele senza rischiare di fare
una brutta figura di fronte a Mondrian, che quasi ripercorre gli eventi
del passato.
Dopo aver fatto le sue scelte artistiche, abbandonando percorsi che ritiene
superati. Ritorna a Parigi nell’estate del 1919, mentre van Doesburg resta
in Olanda e si prodiga senza risparmio per disintegrare De Stijl.
Il record di velocità di fuga dal movimento spetta a Van der Leck, che resta
nel gruppo per sei mesi. Si allontana per divergenze di opinione con van
Doesburg, del resto nessuno lo trattiene perché non è abbastanza rettangolarizzato.
La medaglia d’argento va a Pieter Oud, che litiga prima con van Doesburg
poi anche con Mondrian per questioni architettoniche.
Restano van t’ Hoff e Huszár ma niente paura, ci pensa Theo.
Robert van t’Hoff è un architetto, membro fondatore di De Stijl. E’ così
convinto che nel 1918 costruisce per se stesso una house-boat seguendo i
principi del neoplasticismo, la fa arredare secondo gli stessi criteri e
la chiama De Stijl tanto per ribadire il concetto. Subito dopo litiga con
van Doesburg (o forse sarebbe meglio dire che van Doesburg litiga con lui...)
lascia il gruppo, vende la house-boat e costruisce due case in stile tradizionale
per sé e per i parenti.
Vilmos Huszár, che ha curato il design interno della house boat litiga con
van Doesburg perché quest’ ultimo aveva criticato la scelta dei colori.
A questo punto van Doesburg si guarda intorno compiaciuto: ha litigato con
tutti a parte Mondrian (per ora...) e può godersi il meritato riposo.
Ben presto però si accorge di aver trascurato un piccolo particolare. E’
vero che eliminando i componenti del gruppo, tranne uno in trasferta, può
decidere la linea di De Stijl senza che nessuno lo contraddica o sbagli
i colori delle house-boat, però non ci sono più persone che scrivono sulla
rivista.
Dopo un breve periodo di crisi su De Stijl compaiono articoli di I.K. Bonset
e Aldo Camini, che in realtà sono entrambi pseudonimi di Christian Emil
Maria Kupper.
Ho pensato: non è un gruppo numeroso ma meglio di niente, speriamo che Theo
non litighi anche con Emil Maria... poi ho scoperto che sono la stessa persona,
ossia C.E.M. Kupper è il vero nome di van Doesburg.
Praticamente Theo non solo ha inventato il trucco del nick multiplo per
trasformare in dialogo un monologo, ma era anche il nick di se stesso.
La cosa che oggi sembra incredibile è il risultato storico ottenuto dalla
rivista De Stijl nonostante la diffusione limitatissima (400 copie di media
con una punta massima di 700 nel 1922),
soprattutto tenendo conto del fatto che in questo periodo pare che il passatempo
preferito dagli artisti sia pubblicare riviste d’arte. Richter fonda la
rivista “G.Gestaltung”, Schwitters ovviamente intitola la sua rivista “Merz”,
i gruppi Cercle et Carré, Art Concret e Abtraction/Creation pubblicano riviste
omonime, van Doesburg fa concorrenza a se stesso con “Mécano”. Questi sono
solo alcuni esempi, eppure De Stij è l’unica che viene ricordata.
Bisogna riconoscere che van Doesburg con tutti i suoi difetti è stato grande
nel divulgare le sue idee.
Altri artisti si uniscono al gruppo deserto, tra questi Gerrit Rietveld,
architetto e falegname. Su De Stijl compare un suo articolo dal mitico titolo:
Note sul seggiolone. Questo paziente signore, uno dei pochi artisti europei
che non hanno litigato con Theo, è il designer della famosa Sedia rossa
e blu che sembra uscita direttamente da un quadro di Mondrian. Questa sedia
non è mai stata un oggetto destinato alla produzione in serie, tutte quelle
realizzate da Rietveld sono differenti l’una dall’altra per materiali e
dimensioni. Rietveld non fissò mai una normativa standard, lavorava continuamente
alla sedia per migliorarne le proporzioni per lui quella sedia non era un
oggetto ma un concetto. Immagino che Kosuth apprezzerà...
Rietveld ha anche realizzato l’edificio più De Stijl, casa Schroeder. Io
la trovo molto bella, ed è buffo vedere le foto di questa villetta bianca
a quadri neri e grigi che se ne sta a neoplasticare tranquilla alla fine
di una serie di tipiche case olandesi in mattoni scuri.
Oltre a Rietveld anche Mondrian resta ancora legato a van Doesburg. E’ tornato
nello studio di Rue du Départ ma le cose vanno male. Non ha più una rendita,
di conseguenza cominciano i problemi economici.
Nel 1920 scrive a Theo che non riesce più ad andare avanti, così ha deciso
di organizzare un’ultima mostra di congedo, dopo di che comincerà a lavorare
nell’industria vinicola provenzale.
Ma è un falso allarme.
Mondrian viene aiutato dai suoi amici olandesi e dal collezionista Salomon
Slijper... sembra che in Olanda ci siano più collezionisti che tulipani.
Salomon trova committenti per i quadri di fiori dipinti da Mondrian, una
soluzione che gli permette di vivere ma che certo non lo entusiasmava.
Sono di questo periodo i suoi ultimi due testi comparsi su De Stijl. Uno
di questi ha un bel titolo poetico pre-bobdylan: “Nel vento”.
Mondrian era depresso a causa delle difficoltà pratiche e descrive la rassegnata
resistenza nel vento della vita dei principi neoplastici, nella speranza
che in futuro apparterranno alla realtà quotidiana di tutti gli uomini.
Arriva addirittura a giustificarsi perché è costretto a dipingere soggetti
naturalistici per vivere.
Qui Theo dimostra la differenza tra il coraggio di una critica pertinente
e la delicatezza nei confronti di una amico in difficoltà, perché per una
volta se ne sta zitto.
Mondrian si trova a portare avanti una doppia vita artistica, e fin qui
non c’è nulla di strano. La cosa sorprendente è che sistemò all’entrata
del suo studio un fiore finto che aveva dipinto di bianco. Questo sarebbe
normale per qualsiasi artista, chiunque tiene in studio modelli di ciò che
dipinge. Chiunque a parte me, che non posso convincere creature azzurre
che respirano azoto liquido e provengono dalla quindicesima dimensione a
soggiornare qui solo per farmi piacere, no?
Però gli altri artisti lo fanno: Giorgio Morandi dipingeva bottiglie, ne
aveva più o meno un miliardo accatastate ovunque, affrescate nei suoi tipici
colori solari: terra di Siena, grigio, bianco calce, nocciola, ocra, beige,
marrone, giallo spento, ocra tetro, fango, argilla, pantano, melma, mucillagine,
yogurt biologico, topo muschiato, gatto rognoso, pesce bollito, sabbia bagnata,
sabbia asciutta, sabbia umida, vomito di Esorcista, muffa ammuffita... il
che associato a un letto claustrale, un cavalletto penitenziale e un tavolo
di legno ricoperto di stracci, pennelli e fiori secchi rende la stanza gioiosa
e vitale come quella di un frate carmelitano scalzo missionario in Alaska.
Lo studio di rue
du Départ è progettato per diventare una leggenda. Mondrian in quello spazio
realizza un’ambientazione neoplastica, dipinge alle pareti grandi riquadri
di colori puri che si integrano con le sue tele. Non è solo un atelier in
cui lavorare, è anche una galleria dove viene concretizzato l’ideale di
architettura portato avanti da De Stijl.
Un luogo simile sembra necessariamente allergico ai fiori veri o finti,
invece Mondrian mi sorprende col suo tulipano bianco di plastica. Certo
sono piccole sorprese, nulla di eclatante ma lui non è una persona plateale
e lascia trapelare poco di sé.
Artisti, fotografi e visitatori sono affascinati da quell’ambiente e a me
sembra un ottimo metodo per formalizzare le proprie idee non solo sulla
tela ma anche nello spazio che ha a disposizione.
Anche Brancusi aveva fatto qualcosa di analogo nel suo studio, Man Ray lo
descrive affascinato: nello studio tutto era bianco, gli oggetti che non
si potevano dipingere venivano nascosti dietro una tenda bianca in un angolo
della stanza. Il tavolo da pranzo era un blocco di gesso, al termine del
pasto Brancusi raschiava la superficie con una spazzola di metallo e tutto
tornava bianco, sia il tavolo sia gli amici ricoperti di polvere di gesso.
Un giorno ricevette in regalo una radio, la smontò e inserì il meccanismo
in un cubo di pietra bianca.
Brancusi non è tra i miei artisti preferiti però mi sarebbe piaciuto vedere
uno studio così abbagliante.
Mondrian a Parigi fa vita di società, conosce nuove persone, lavora ai suoi
testi, pubblica “Il neo-plasticismo, principio generale dell’equivalenza
plastica” con una dedica agli uomini del futuro. In questo testo oltre ad
esporre i suoi principi fa un colpo da maestro lessicale: traduce l’espressione
olandese “nieuwe beelding” usata nelle prime formulazioni teoriche con il
neologismo francese “néo-plasticisme”. Ottima idea Piet, credo che il nieuwebeeldingismo
non avrebbe avuto molto seguito... al massimo qualche pecorella smarrita
attirata dall’onomatopea.
Ben presto abbandona la vita mondana, si ritira nello studio e lavora intensamente
per sviluppare le sue idee. Nel frattempo porta avanti una distruzione sistematica
di ogni aspetto biografico legato alla sua persona. Brucia tutte le lettere
e i documenti relativi al suo passato, rilascia pochissime interviste, non
permette più che lo fotografino mentre dipinge.
Elimina tutto ciò che non riguarda il suo lavoro, annulla ogni aspetto privato:
vuole rimanere solo nelle sue opere e nelle sue teorie.
Questa cosa mi ha colpito. E’ spietato con se stesso, freddo, non salva
nulla del suo passato, non vuole ricordi. E’ un modo di raggiungere una
libertà totale e feroce, una leggerezza assoluta. Oggi sembra strano, nella
nostra epoca dominata da internet c’è la tendenza opposta a raccontarsi,
a svelarsi pubblicamente in un’illusione di comunicazione che spesso è soltanto
un intrecciarsi di monologhi diretti all’esterno.
Forse è per questo che mi ha tanto impressionato l’atto di Mondrian, il
suo voler distogliere l’attenzione da sé come persona per concentrarla esclusivamente
sulla sua arte.
Il gesto definitivo di un uomo geloso della propria anima.
Theo invece non si pone questi problemi, è totalmente incontenibile. L’Olanda
è un paese piccolo e ormai ha terminato gli artisti con cui litigare, così
con la scusa di diffondere all’estero le idee di De Stijl comincia a cercare
in Europa nuovi interlocutori da sfinire.
Mi viene un dubbio... forse sto facendo un ritratto poco gentile di van
Doesburg. In fondo la mia è solo un’interpretazione personale degli accadimenti,
le cose assumono valenze diverse a seconda del punto di vista. Ad esempio
qualcuno potrebbe vedere van Doesburg non come un attacca-lite professionista
ma al contrario come un audace,sempre pronto a dire quello che pensa e a
difendere le sue idee a qualunque costo. Messo in quest’ottica van Doesburg
potrebbe addirittura sembrare un eroe... mi sembra di vederlo, solo contro
tutti, incorruttibile, deciso a portare gli ideali di De Stijl fino alle
estreme conseguenze... ora appare come Don Quichotte che combatte instancabile
contro i mulini a vento... ma chi è che interrompe questa epica visione
con le sue lamentele? Ah perdonatelo, è un mulino a vento. Dice che per
loro Don Quichotte è solo un grandissimo rompi pale.
Nel 1920 Viking Eggeling e Hans Richter, due giovani artisti ingenui e incauti,
hanno la brillante idea di invitare Theo a Berlino dove incontra Gropius,
Taut e Adolf Meyer. Quest’ultimo gli trova un alloggio sotto l’appartamento
di Paul Klee e van Doesburg fa numerosi viaggi in Germania per visitare
il Bauhaus.
Ovviamente non gli va bene nulla, quindi decide che il suo scopo nella vita
è cambiare i metodi di insegnamento della scuola. Va da Gropius, gli dice
che i suoi corsi sono privi di metodo e dominati da un’estetica espressionista,
poi gli propone di assumerlo così gli può rompere le scatole più comodamente
dall’interno. Bisogna riconoscere che Theo era coraggioso, non aveva paura
di litigare con uno più Gropius di lui.
Non vi dico lo stupore di van Doesburg quando Gropius, invece di ringraziarlo
commosso per la sua generosa offerta e cedergli direttamente la cattedra
di direttore, lo fa cortesemente accompagnare fuori dal Bauhaus, raccomandando
ai buttafuori di chiudere bene la porta a chiave dopo aver fatto uscire
l’olandese pazzo.
E qui parte il delirio. Theo manda all’amico Anthony Kok una cartolina del
Bauhaus con scritto “De Stijl” in ogni angolo possibile e immaginabile,
arriva addirittura a disegnare il sole come i bambini dell’asilo e scrive
De Stijl anche sul sole. E’ strepitoso.
Sfinisce Huszàr finché non scrive un articolo fortemente critico nei confronti
del Bauhaus, poi dopo averlo pubblicato lo trova troppo indulgente e ne
scrive uno anche lui definendo “marmellata espressionista” ciò che insegnavano
Itten, Klee e Taut, in particolare rende noto che trova confuse le lezioni
di Itten.
Viene da chiedersi come mai Theo non abbia mai preso in considerazione la
carriera diplomatica.
Visto che il Bauhaus ritiene di poter fare a meno della sua opera didattica,
van Doesburg organizza un corso al di fuori dell’orario di insegnamento,
in cui dà lezioni di disegno architettonico.
Questa mi sembra un’ottima idea, e forse anche Gropius si sarà sentito sollevato
sapendo che Theo era impegnato in qualcosa di costruttivo, anziché aggirarsi
nei corridoi della scuola vestito da bidello per stressare i docenti.
Alcuni allievi del Bauhaus iniziano a frequentare anche lo Stijl-kursus
di van Doesburg che diventa un punto di incontro per i dadaisti tedeschi.
Nonostante il suo impegno con De Stijl, Theo aveva un’anima dada e tale
si considerava, tanto è vero che firmava “dada-Does” le lettere per Mondrian,
e chiamava lui “dada-Piet”. Mi immagino la sua faccia quando le riceveva...
Nel frattempo van Doesburg conosce El Lisitskij che si trova a Berlino per
curare la mostra degli astrattisti russi. Anche l’amicizia con Lisitskij
non dura a lungo, ma non conosco il motivo di questa rottura. Forse dipende
da una considerazione negativa di El sulle esperienze degli artisti di De
Stijl nell’affrontare la tridimensionalità. Lisitskij commenta che in questi
casi diventano scenografi e conclude ironicamente dicendo che nelle loro
scenografie si “potrebbe andare a spasso senza ombrello” perché vogliono
realizzare un rapporto unitario e intercambiabile fra spazio e tempo.
Chiedo scusa ma non ho capito la battuta. El, che c’entra l’ombrello? Quando
si parla di spazio-tempo non si intende tempo meteorologico ma tempo temporale...
certo che se gli hanno spiegato le cose in questo modo, El Lisitskij ha
tutto il diritto di confondere il tempo con il tempo, anche perché se gli
artisti di De Stijl cercavano di formalizzare in un’opera l’idea del tempo,
avranno dovuto superare molte difficoltà.
Ricordo una fiaba in cui una principessa chiedeva un abito color del tempo.
Mi sono sempre domandata che colore potesse mai avere e finalmente mi hanno
risposto non con un semplice abito ma addirittura con un edificio!
Stavo leggendo un articolo in inglese che parlava d’altro quando ho notato
un paio di righe in cui l’autore menzionava un enigmatico Blur building.
Blur significa nuvola, poiché in inglese io capisco una parola su tre ho
pensato a un metaforico palazzo-nuvola con la facciata decorata.
Poi ho approfondito e ho scoperto una cosa straordinaria: non è un palazzo
di cemento con le nuvole dipinte ma proprio una nuvola abitabile, una nube
residenziale! Credo che sia la cosa più
che finora ho incontrato in architettura (ho lasciato uno spazio vuoto perché
non riesco a trovare un termine che esprima in maniera adeguata il mio totale
rapimento per questa casa da angeli).
Gli architetti del Blur, Diller + Scofidio, hanno realizzato il loro nebuloso
progetto in occasione dello Swiss Expo 2002 che si teneva sul lago Neuchatel
a Yverdon les Bains. Hanno costruito una lunga passerella per collegare
la riva del lago a una grande nuvola che sembrava restare sospesa sull’acqua
in modo misterioso, quasi l’avessero ancorata con la parola magica che serve
per evocare le nebbie di Avalon. I
visitatori dopo aver percorso la passerella potevano provare l’esperienza
unica di camminare nel cielo avvolti dal bianco soffice e silenzioso.
In realtà il Blur è frutto di complicate tecnologie computerizzate, una
costruzione di tubi metallici preleva l’acqua del lago, la filtra e la espelle
sotto pressione attraverso 31.500 jets del diametro di 120 micron. I computer
regolano la pressione dei getti d’acqua in base alle condizioni atmosferiche,
affinché la nube circondi costantemente le strutture di metallo anziché
assecondare la propria natura e volare nel cielo blu della Svizzera.
All’interno del Blur c’erano diverse cose, anche un bar in cui si serviva
solo acqua: acque minerali provenienti da tutto il mondo, acque sorgive,
glaciali, acque delle reti comunali delle grandi città...
Io trovo che questo lavoro sia meraviglioso, poetico e tecnologico allo
stesso tempo. Uno degli aspetti più stupefacenti è che il Blur cambia continuamente
forma e colore a seconda del vento, della pressione atmosferica, della posizione
del sole e delle condizioni climatiche. Una costruzione dinamica, impalpabile,
inafferrabile, una contraddizione architettonica.
Mi sarebbe piaciuto vedere il Blur ma purtroppo l’hanno già smontato...
forse non è la parola adatta, come si fa a smontare una nuvola? Magari dovrei
dire che l’hanno sgonfiato, oppure soffiato via.
Mi domando cosa pensano van Doesburg e Mondrian dei nuovi traguardi che
l’architettura raggiunge e supera costantemente nella sua fantastica corsa
verso il futuro.
Chissà se condividono il mio entusiasmo?
L’architettura era molto importante per gli artisti di De Stijl, avevano
idee ben precise al riguardo e cercavano di diffonderle e di esporle. Theo
più che altro cercava di imporle...
Secondo me se avesse visto il Blur avrebbe cominciato a sclerare, e sicuramente
avrebbe scritto un articolo di fuoco protestando per la troppa umidità e
i pochi angoli retti, poi avrebbe suggerito a Diller e Scofidio di adeguare
il Blur alle normative di De Stijl costruendo una serie di nuvole rettangolari
rosse, gialle e blu, naturalmente assemblate a losanga per conferire dinamicità
alla struttura.
Le idee di van Doesburg sull’architettura sono molto valide in teoria, i
problemi nascono quando le mette in pratica.
All’inizio si limita a colorare i progetti dei suoi amici architetti. Lo
posso quasi vedere mentre se ne sta in piedi dietro allo sgabello di Cees
Rinks de Boer seduto al tecnigrafo per completare il progetto del Torenstraat
Building e gli chiede continuamente: “Hai finito? Lo posso colorare? Ma
quanto ci metti?!?”
Alla fine il povero Cees esasperato affida il suo disegno a Theo che prende
i pennarelli e lo scarabocchia con la scusa di “sviluppare un sistema di
intelaiature colorate per porte e finestre” usando solo colori primari.
Purtroppo gli abitanti del palazzo non compresero l’opera di van Doesburg,
ribattezzarono l’edificio “Papageienbuurt” ovvero “casa pappagallo” e ridipinsero
tutto con colori più sobri.
Ma questo piccolo incidente di percorso non scoraggia Theo, tanto più che
cose simili accadevano continuamente agli architetti di De Stijl. Robert
van t’Hoff ad esempio realizzò villa Henny seguendo i nuovi principi costruttivi,
che prevedevano tra l’altro l’abbandono dei materiali naturali (pietra,
legno ecc.).
Villa Henny è uno dei primi esempi europei di edifici costruiti in cemento,
e anche in questo caso i contemporanei esibiscono una notevole capacità
critico-ironica ribattezzando la casa “Betonvilla”.
Immagino la soddisfazione della signora Henny...
Invece van Doesburg si sente consolato e nell’attesa di costruire case si
dedica all’analisi degli spazi abitativi e del design. Come antipasto litiga
col designer Zwart a proposito di una poltrona disegnata da quest’ ultimo.
Van Doesburg lo definisce un reazionario che supporta lo stile viennese,
il che nel lessico di Theo è una delle peggiori offese, seconda solo a “espressionista
cornuto”.
Però questa volta non ha torto, in effetti Zwart aveva piazzato la sua poltrona
imbottita in una sala da pranzo De Stijl creando il tipico effetto rigattiere,
inoltra aveva anche osato criticare il movimento creato da van Doesburg...
insomma gli è andata bene se non si è trovato la macchina con le gomme tagliate
e al carrozzeria ricoperta di scritte “De Stijl” incise col punteruolo.
Van Doesburg eclettico e casinaro come al solito si occupa di quindici cose
contemporaneamente, nello stesso periodo in cui ha deciso di rivoluzionare
l’architettura si dedica anche al cinema. Influenzato dalle idee di Richter
sul film astratto, ritiene che sia giunto il momento di definire i parametri
temporali per le forme neoplastiche.
Secondo lui è ora che l’originario ideale bidimensionale si evolva verso
“termini elementari: spazio- tempo- linea- piano- volume”.
Theo sei impagabile! Per complicare le cose, direi che ci potresti mettere
la tettonica delle zolle, potrebbe starci bene...
I principi di equilibrio cominciano a dare segni di squilibrio. D’altronde
era da prevedere, non è che un esagitato come van Doesburg può passare la
vita a dipingere righe dritte.
Mondrian naturalmente non segue il nuovo percorso dell’amico. Quella di
Mondrian non è solo una ricerca teorica, nella sua pittura lui mette in
gioco molto di più: tutto se stesso, la sua vita, la sua anima.
In un’intervista Mondrian si dichiara contrario ai propositi pluridimensionali
e spaziodinamici proposti da van Doesburg e van Eesteren, respinge le loro
ricerche e le definisce “giocare con la quarta dimensione”.
Mondrian è uno dei pochi che restano al di fuori dal delirio collettivo
per le nuove scoperte della fisica; all’epoca erano tutti impazziti per
la luce e lo spaziotempo, dai più grandi come Duchamp ad artisti meno noti
come Leopold Survage. Le sue ricerche cinematografiche lo portarono a definire
la sintesi armonico-organica della sfera come un traguardo “al di dentro
della natura e delle forze della luce”. Praticamente uno jedi.
In questo clima post relatività gli artisti adoravano Henri Poincarè, uno
scienziato che scriveva anche testi divulgativi.
Van Doesburg pubblicò su De Stijl un suo articolo dal titolo: “Perché lo
spazio a tre dimensioni?”
Io non ho letto l’articolo ma trovo che il titolo sia perfettamente in linea
col dinamismo neoplastico, infatti a seconda dell’ispirazione del tipografo
può facilmente trasformarsi in: “Perché lo spazio ha tre dimensioni?” oppure:
“Perché, lo spazio ha tre dimensioni?!?”
La rottura tra Mondrian e van Doesburg riguarda esclusivamente questioni
teoriche e non influì sulla reciproca stima, tanto è vero che in seguito
Mondrian scrisse che malgrado gli errori Theo era stato l’unico assieme
a lui a fare della pittura astratta pura. Detto dal riservato Mondrian,
mi sembra da intendere come un sommo riconoscimento!
Ma prima di ritornare alla pittura Theo dovrà ancora percorrere un cammino
piuttosto contorto.
Nel 1923 partecipa a una mostra di modelli e disegni architettonici a Parigi.
In questa esposizione De Stijl veniva presentato come un gruppo omogeneo,
anche se gli artisti si erano separati da tempo. Van Doesburg e van Eesteren
lavorarono insieme a tre progetti: la casa di Lèonce Rosenberg (il gallerista),
una casa privata e una casa-studio per artisti.
Dei tre soltanto il primo era destinato ad essere realizzato, gli altri
due erano modelli ideali. La mostra venne visitata da molti artisti famosi
e gli architetti dell’epoca vennero profondamente influenzati dalle nuove
concezioni formalizzate nei modelli.
A proposito delle differenze percettive, è singolare l’impressione che suscita
il medesimo oggetto in due persone diverse. Nel modello della Maison Rosenberg
gli architetti vedevano l’esemplificazione di principi rivoluzionari, mentre
io vedo solo un deprimente modellino di balsa.
Comunque non per fare paragoni odiosi, ma mentre a Parigi costruivano casette,
Malevic progettava basi spaziali!
Trovo particolarmente appropriata l’idea della casa per artista, un luogo
sicuro in cui rinchiuderlo così se ne sta per un po’ fuori dalla circolazione
invece di andare in giro a fare danni.
Purtroppo la Maison d’artiste non viene realizzata e Theo rimane a piede
libero. Controlla l’agenda... con chi deve ancora litigare? Ah sì, Vantongerloo.
Provvede addirittura sul numero per il decennale di De Stijl, esprimendo
riserve sulle sue sculture.
Ormai abbiamo capito che trattandosi di van Doesburg “esprimere riserve”
è un eufemismo che sta per “prendere a parolacce il malcapitato di turno”,
infatti Vantongerloo da quel momento mise una croce sopra van Doesburg e
lo fece in modo così definitivo che si rifiutò perfino di rilasciare una
testimonianza sul numero di De Stijl uscito nel 1933 per commemorare Theo.
Suppongo che Vantongerloo si sia detto: va bene che è morto, ma con van
Doesburg la prudenza non è mai troppa...
Mentre è occupato a litigare con Vantongerloo, van Doesburg viene convocato
dai coniugi Arp per collaborare alla ristrutturazione interna del Cafè Aubrette,
un locale che comprendeva diverse sale dedicate all’intrattenimento, al
ballo e alle proiezioni cinematografiche.
Quando i tre artisti terminano il lavoro il pubblico rifiuta totalmente
la loro decorazione, tanto che pochi anni dopo il locale viene completamente
rinnovato.
Van Doesburg rilasciò una dichiarazione molto decisa e pre-manzoniana a
proposito della mancanza di comprensione del pubblico. Riporto la citazione
in inglese perché è un po’ più fine (non di molto...) :
“The public want to live in shit and so they’ll have to die in shit.”
Intanto a Parigi i surrealisti riscuotono sempre più successo, così van
Doesburg denuncia su De Stijl il conseguente “stato di confusione estetica”,
e se c’è uno esperto di confusione è proprio lui.
Il gruppo Cercle et Carrè di Seuphor e Torres-Garcia nacque proprio per
riunire gli artisti di tendenza astratta e vi prese parte anche Mondrian.
E’ veramente strano pensare a Mondrian in un gruppo che si chiama Cerchio,
si vede che non aveva capito la traduzione...
Domanda: cosa avrà fatto van Doesburg a questo punto?
Elementare: si è incavolato al cubo!
Appena è uscito il primo numero della rivista “Cercle et Carrè” ha scritto
a Seuphor dicendogli che la loro iniziativa era confusionaria e avrebbe
finito per dare ragione agli avversari dell’astrattismo, quindi si sentiva
costretto suo malgrado con estrema riluttanza a dare vita a un altro gruppo.
Quindici giorni dopo l’uscita del primo numero di “Cercle et Carrè” compare
il primo e unico numero di “Art Concret” (direttore Theo!), ma la contrapposizione
tra i due gruppi non dura a lungo.
Seuphor si ammala, l’attività del gruppo si interrompe e i componenti decidono
di fondarne uno nuovo assieme a van Doesburg, sotto il nome ecumenico di
Abstraction-Crèation/Art Non-Figuratif.
Il presidente era Frantisek Kupka, il quale come accade spesso non vendeva
abbastanza per vivere della sua arte. E’ quasi la norma che gli artisti
facciano altri mestieri, di solito sono insegnanti, bibliotecari, illustratori...
Kupka invece era un tipo originale e faceva il medium di professione.
Scrisse anche un testo sull’arte astratta, nel quale diceva che avrebbe
fatto a meno della pittura e della geometria se avesse potuto servirsi direttamente
delle onde magnetiche. Praticamente il precursore di Nam June Paik!
Theo non potrà partecipare alle vicende di Abstraction-Crèation perché muore
il 7 marzo 1931 a Parigi per un attacco di cuore.
Immagino che gli altri artisti si siano chiesti: cos’è tutto questo silenzio?
Voglio precisare che ho scherzato con van Doesburg, ma questo non diminuisce
la mia considerazione nei suoi confronti.
E’ vero che era litigioso, e non era un artista del livello di Mondrian,
ma il suo lavoro per la diffusione delle idee è stato immenso.
Forse l’opera che più lo rappresenta è la sua rivista: sempre diversa, alla
ricerca di cose nuove da analizzare e da proporre, all’avanguardia, elegante.
Credo che la cosa più bella fatta per ricordarlo sia la pubblicazione postuma
di De Stijl curata da sua moglie Nelly, un fascicolo che raccoglie le testimonianze
degli amici e suoi testi inediti.
Il titolo è “Dernier numéro”, un modo composto per dirgli: non sarà mai
più la stessa cosa.