IL MANTELLO DELL'INCORONAZIONE DI RUGGERO II DI SICILIA
Guardo le opere d’arte dagli anni Sessanta in poi, mi pare la cronaca di
uno smarrimento.
Si è perduta la bellezza.
Lo so che è considerata una parolaccia, qualcosa di disdicevole, una di
quelle cose che esistono però è meglio evitare di nominare per educazione.
So anche che il criterio di valutazione dell’arte non è più la bellezza,
ma il fatto che io lo sappia non implica che condivida.
Sembra che la bellezza di un’opera la faccia automaticamente scadere nella
condizione di oggetto frivolo e privo di spessore, senza prendere minimamente
in considerazione il fatto che tra bello e grazioso c’è una differenza abissale.
Io capisco che gli americani abbiano sentito la necessità di costruirsi
un’arte diversa da quella europea, è giustificabile. Ed è inevitabile che
questo tipo di arte sia stato imposto al mondo.
Però non capisco perché noi che siamo artisti, e per di più italiani, dobbiamo
per forza tentare di adeguarci a un’arte così distante.
E’ una specie di paradosso temporale: guardo quest’arte che mi è vicina
nel tempo e la sento lontana come un’altra galassia, senza che ne possieda
il fascino.
A forza di raffreddare e spersonalizzare ne è uscito qualcosa di gelido
e scostante.
Mi capita per caso fra le mani la foto del mantello usato da Ruggero II
in occasione della sua incoronazione.
Capisco bene che il ricamo è un’arte minore ma dovreste vederlo: è un mantello
di seta rosso sangue con un ricamo di tigri e dromedari in oro. Non ci sono
altri colori, solo il rosso e l’oro che ti sparano negli occhi tutta la
forza della nostra tradizione estetica, che a distanza di nove secoli si
impone ancora come qualcosa di eterno e vitale, qualcosa che è stato portato
avanti dai grandi artisti e che lascia il suo segno profondo anche negli
oggetti d’uso.
Questo è solo un ricamo. Anche se d’oro, anche se mantello di re, io non
lo metto esattamente sul piano dell’opera d’arte, però questo oggetto mi
trasmette infiniti pensieri e sensazioni che l’arte più recente sta bene
attenta a negarmi e a negarsi.
Non dico che la bellezza sia sempre uguale ed immutabile nel corso dei secoli,
non ha senso rifare il passato, poiché le condizioni storiche e umane sono
cambiate. Il ricamo di re Ruggero rifatto oggi sarebbe un controsenso, non
solo perché il re è morto (viva il re!) ma soprattutto perché non avrebbe
mai la stessa bellezza dell’originale: nella nostra epoca tecnologicamente
avanzata, quand’anche si trovasse uno stuolo di zie disposte a ricamare
a mano, non si avrebbe mai lo stesso filato d’oro irregolare, la stessa
seta tinta con qualche magica porpora che è rimasta di un rosso imperiale
dal 1130 per noi.
Voglio dire che la bellezza oggi è di un altro tipo ma c’è, nei posti più
strani.
Io la trovo quando meno me l’aspetto e mi sorprende ogni volta.
Il mio è un concetto di bellezza personale, diverso forse dall’ideale generalizzato
e magari poco sostenibile se non con motivazioni bizzarre.
Vedo bellezza nella Land Art, in quelle opere sconfinate, sterminate e tuttavia
assurde; un enorme spiegamento di forze per qualcosa di destinato a scomparire
in breve tempo, trovo bello il gesto di Heizer che scava chilometri di buchi
nel deserto per poi voltare le spalle e lasciare che la natura faccia il
suo corso.
E’ una specie di mandala disperso nel vento… oddio, un mandala un po’ fuori
misura, rumoroso e meccanico ma in fondo Heizer è un cow-boy, mica si poteva
mettere a disegnare miracoli di sabbia colorata!
Vedo bellezza nel lavoro di Roman Opalka.
La prima volta che ho sentito parlare di questo artista ho pensato: è fuori.
Ha cominciato nel 1965 a dipingere numeri bianchi su tele nere. E’ partito
dal numero uno ed è andato avanti a dipingere col suo pennellino, sempre
in progressione.
Ha cambiato solo il colore del fondo che da nero diventa sempre più grigio
in modo da arrivare a dipingere numeri bianchi su fondo bianco.
Dal 1972 alla fine di ogni quadro Opalka fotografa il proprio volto.
Come ho detto, la mia prima reazione nei suoi confronti è stata di insofferenza.
Ma come, uno butta la vita a dipingere numeri?
Poi però l’immagine di un artista sempre di fronte alla tela che cambia
impercettibilmente nel corso degli anni mi ha attirato per la sua ostinazione.
Ho pensato che c’era una specie di disperata bellezza nello scegliere di
usare la vita a dipingere numeri, una convinzione totale o una completa
indifferenza. O forse la consapevolezza di non essere in grado di realizzare
qualcosa di più incisivo, e allora la lucida follia di una scelta che per
avere valore richiede adesione fino all’ultimo respiro.
Lui lo sa che non può più cambiare, non può mettersi a dipingere ritratti,
fiori o lettere dell’alfabeto se vuole che 37 anni di lavoro abbiano un
senso.
E vedo bellezza in un’altra cosa.
Ho pensato a lui solo nello studio, davanti a tele sempre più chiare, e
in questa luminosità che aumenta impercettibilmente i numeri bianchi si
confondono.
Mi sono chiesta a cosa pensa quest’uomo inesorabile mentre dipinge un numero
dopo l’altro.
La risposta è terribile.
“Quale sarà l’ultimo numero?”
Baci a Opalka da 1 all’infinito.